lunedì 7 dicembre 2009

LA DEMOCRAZIA UCCIDE

Il 22 ottobre 2009 muore all’ospedale Pertini di Roma il trentunenne Stefano Cucchi dopo alcuni giorni di detenzione nel carcere di Regina Coeli.
Le più alte cariche dello stato, come era lecito aspettarsi, hanno immediatamente preso le difese dei propri sottoposti. Il ministro “delle bugie” Alfano parla addirittura di “caduta accidentale dalle scale”, mentre il ministro Giovanardi diagnostica una morte provocata da anoressia, droga e crisi epilettiche.
In questa sede, lungi dal sostenere la teoria delle “mele marce” o quella della democrazia imperfetta, mi sembra quanto mai opportuno recuperare le storie di queste persone e gli episodi che li hanno portati di fronte alla morte per mano delle istituzioni democratiche, dal momento che il problema centrale resta lo stato, sia esso totalitario o democratico.
Perché la democrazia uccide. Fuori dai propri confini attraverso il militarismo, la cui violenza “umanitaria” si esercita nei confronti del nemico integralista, e all’interno dei propri confini attraverso la carcerazione, la psichiatrizzazione e la medicalizzazione, che ha lo scopo di prendere in carico la vita di persone che mettono in crisi l’ordine dello status quo.
Prima di arrivare a ciò, credo sia importante ripartire da una riflessione illuminante che Michel Foucault fece su carceri, psichiatria, medicina e discorsi scientifici. Il filosofo francese parla a tal proposito di “microfisica del potere”. Secondo i suoi studi lo stato, nella sua accezione moderna, non si regge solo ed esclusivamente su istituzioni repressive, in virtù delle quali si rifrangerebbe sul corpo sociale l’esercizio della forza tramite la polizia; ma anche e soprattutto grazie a quelle istituzioni “neutre”, le quali grazie alla “benedizione” della comunità scientifica contribuiscono a definire e costruire culturalmente una moltitudine di esclusi divisi per categorie, sulle quali lo stato scatena tutta la propria violenza in tutte le sue diverse e complesse forme. Da qui il mito del criminale, del malato mentale ecc…
Il caso di Stefano purtroppo non è un caso isolato. Cosa dicono oggi i nomi di Marco Ciuffredda, Giuseppe Ales, Alberto Mercuriali, Roberto Pregnolato, Stefano Frapporti, Aldo Branzino? Sono persone morte in carcere in circostanze non chiare o suicidatesi per reazione all’arresto legato alla detenzione di pochi grammi di stupefacenti. Oppure la vicenda di Federico Aldrovandi, diciottenne ucciso da 4 poliziotti a Ferrara dopo una serata trascorsa con gli amici a Bologna e infine Marcellino Lonzi e i tanti immigrati clandestini per i quali, fuori da ogni tutela dello stato di diritto, diventa più facile insabbiare il loro omicidio. Uno fra tanti la vicenda della morte di Emmanuel Ajoku Benedict il 23 ottobre 2009 nel padovano, durante la quale perse la vita nel corso di una ignota perquisizione da parte di due agenti di pubblica sicurezza. La versione data della polizia non concorderebbe con quella riportata da alcuni parenti e amici, i quali hanno chiesto alle autorità competenti di occuparsene direttamente.
Accanto a queste morti violente ve ne sono altre ugualmente violente, ma a danno di persone a cui lo stato dovrebbe prestare delle cure mediche. Ma questo è solo un alibi, dal momento che il giudizio psichiatrico sui comportamenti è puramente di natura morale e le tecniche utilizzate di natura violenta e liberticida.
Il 22 giugno 2006, esattamente una settimana dopo l’ospedalizzazione, muore nell’SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura) dell’ospedale di Cagliari Giuseppe Casu, sessantenne reo di aver commercializzato la propria verdura senza licenza presso il mercato del suo paese. Per 7 giorni Giuseppe viene legato al letto di contenzione e gli viene applicato un TSO, finché gli infermieri non rilevano la sua morte a causa di tromboembolia dell’arteria polmonare. Il 4 agosto 2009 nel reparto psichiatrico dell’ospedale S. Luca di Vallo della Lucania viene assassinato il compagno Francesco Mastrogiovanni, perché come qualcuno ha già scritto “se non c’è la finestra di una questura a disposizione, per uccidere un uomo libero, va bene anche il letto di contenzione di un ospedale psichiatrico”.
Come collettivo antipsichiatrico nonché come osservatorio contro gli usi e gli abusi della psichiatria da anni raccogliamo testimonianze di persone la cui vita, per i più svariati motivi, è saldamente controllata dal potere psichiatrico. Per tutti coloro che si sono avvicinati a noi è chiara la consapevolezza che appena si fa viva la psichiatria nella vita di una persona la propria storia diventa autobiografia clinica e la propria intenzionalità malattia. Nella nostra società la razionalità è sinonimo di produttività, tale termine è fondato sulla scissione tra ragione e follia, dove quest’ultima appare come priva di efficienza produttiva. Da qui l’esigenza non di punire ma di correggere quei comportamenti non funzionali ad un sistema produttivo che necessita di schiavi disciplinati o suscettibili ad autodisciplinarsi. Il primo passo è la burocratizzazione delle vite di questi sfortunati individui, gli effetti sono la privazione della loro libertà e ovviamente la loro deresponsabilizzazione. La psichiatria è il governo di un umanità eccedente che per una ragione o per l’altra è esclusa o si autoesclude dal processo produttivo. L’esigenza di internare gli individui nei vari servizi territoriali unitamente alla loro amministrazione attraverso gli psicofarmaci che rendono docile la loro mente e il loro corpo muove direttamente da un’economia interna ad ogni istituzione che impone di non essere incrinata. Tutto questo non ha niente a che vedere con un’azione di cura.
Per chi finisce nelle maglie della psichiatria la pena non ha mai fine e lo stigma rimane marchiato a fuoco per tutta la vita. Le vie d’entrata possono essere differenti: isolamento, situazione di particolare vulnerabilità, oppure l’intervento può essere sollecitato dal proprio circuito di relazioni, dalla famiglia o da un’altra istituzione. L’epilogo è tristemente noto: servizi territoriali, comunità terapeutiche, strutture intermedie residenziali ecc…in vista di quella situazione che gli psichiatri definiscono di cronicizzazione della malattia.
La psichiatria si presenta puntualmente nella vita di individui, o che partono da una situazione di svantaggio tale da giungere alla totale dipendenza dalle istituzioni medico-assistenziali (peraltro senza la consapevolezza di avere dei diritti). Oppure persone che si pongono semplicemente in conflitto con la morale stabilita, amministrandoli e, in alcuni casi, giungendo persino ad eliminarli. E il tutto fatto molto democraticamente.
In questa cornice securitaria, la morte di Mastrogiovanni non può essere certo casuale.